Giorgia: il mio compleanno ad Embu

Perché i bambini sono obbligati ad indossare un’uniforme per poter andare a scuola (comprandosela) anche quando non hanno nemmeno i soldi per poter comprare il cibo?

Perché i neonati vengono coperti come se fossero in Russia a meno tre gradi anche quando fuori ce ne sono trenta?

Perché chi alleva bestiame non vende i suoi prodotti a chi coltiva frutta e verdura, e viceversa, svantaggiandosi a vicenda?

Perché è l‘Africa, e non avrai mai una risposta sensata secondo la nostra cultura europea. Quindi puoi avere solo due possibilità: amarla con tutte le sue contraddizioni od odiarla.

A me è entrata nel cuore.

 

12 Gennaio 2018. Tra una settimana compirò trent’anni ed io, affetta dalla sindrome di wonderlast ho deciso di partire; questa volta però non per una vacanza o un tour alla scoperta di un posto ignoto ma bensì per un’esperienza di vita mia e delle persone che la condivideranno con me. Un’esperienza solidale nei confronti di chi dalla nascita ha dovuto pagare per colpe che non ha mai commesso.

 

13 Gennaio 2018. Sono appena giunta ad Embu Children’s Home dopo tre ore e mezza di viaggio in macchina da Nairobi. Ken, il mio driver, durante il tragitto mi ha già mostrato alcune delle meraviglie di questo posto. I colori: forti, vivi, intensi. Distese di verde a contrasto con la terra rossa che terminano in un cielo blu limpido, decorato con qualche nuvoletta sparsa.

Il Kenya è molto più bello di quanto avessi immaginato!

“Che lavoro fai?” mi chiede ad un tratto Ken. “Faccio parte di una grossa compagnia nel settore dell’informatica” replico io, e lui ribatte sorridente “Ah davvero? Anche io voglio iniziare un business in quel settore!”. “Di che genere?” domando. “Non lo so ancora. A dire il vero vorrei acquistare il mio primo computer in questi giorni così se tu sei qui magari hai modo di farmi vedere come funziona!”.

Qui si sogna sempre in grande, anche se molto spesso manca la fattibilità e la praticità delle cose, ma lo avrei imparato solo più tardi, in quel momento ho pensato solo che Ken fosse una persona molto utopica ma poco concreta.

Varcato l’ingresso dell’orfanotrofio mi viene in contro una suora, l’unica italiana che vive lì assieme alle atre cinque Sisters keniote che gestiscono la struttura. Essendo la superiora, si occupa di tutte le faccende che mandano avanti la casa e la nursery school.

“Vieni!” mi dice allegra ed un po’ trafelata “ti faccio fare un giro del posto”: ed ecco davanti a me il primo vero impatto con la realtà in cui ero: un cortile con le pareti colorate e la scritta “KARIBU” (che in swahili vuol dire “Benvenuto”) e sul fondo un grosso tappeto in lana sdrucito su cui vi erano sdraiati cinque o sei bambini tra i sei mesi ed i due anni. Altri “nanerottoli” invece gattonavano lì attorno e, chi in grado, trotterellava camminando.

Dei neonati per terra in un cortile: qualunque delle mie amiche con figli se avesse visto una cosa del genere sarebbe svenuta!

“Loro sono i babies” mi dice Sister Letizia “e lei è la ragazza che li cura questa mattina”. “I grandi invece a quest’ora sono in classe!”. “Hi” sorrido “I’m Giorgia, nice to meet you!”. “Hi Giorgia” risponde a sua volta “I’m Rita, welcome to Embu! Do you want to feed one of them?” indicando i bambini. “Oh ok!” Dico con faccia stupita “but how?”. “Just take one, and put on him this” mi risponde porgendomi una bavaglina.

Prendo in braccio Prescious. Lei allunga le braccia per farsi sollevare come se mi conoscesse da sempre. È felice che sia arrivato il suo turno per la “pappa”. Ha poco più di un anno, è una femmina. Le metto la bavaglina, ed inizio a darle il porridge dal bicchiere in latta quasi colmo.

Sono ufficialmente entrata a far parte della vita di Embu. Sister Letizia mi lascia ed io proseguo nel dar da mangiare a quelli che mancano.

 

15 Gennaio 2018. Sono in cucina e abbiamo appena finito la colazione (io e le cinque Sisters) e S. Magdaline, che si occupa dell’amministrazione, dice che in mattinata servono i soldi per pagare le visite specialistiche di due bambini (di cui una operata di cuore qualche anno prima). L’ammontare è circa 300€. Inoltre i sacchi dei green grams e quelli del riso stanno terminando. S. Letizia la guarda e calma le risponde che sul conto dell’orfanotrofio non dispongono di quella cifra. Intervengo io nel discorso a quel punto e mi offro di usare i soldi che ho raccolto prima della mia partenza attraverso donazioni di amici e parenti. Mi guardano entrambe acconsentendo, ed esclamano “Perfect!” all’unisono, e S. Letizia in italiano aggiunge: “Vedi la provvidenza ci aiuta sempre!”. Qui funziona così, i soldi non bastano mai, ma in qualche modo si trovano sempre quelli necessari per sopravvivere.

 

18 Gennaio 2018, sono a Merù. Oggi ho accompagnato S. Terezia, che si occupa della gestione dei bambini e ne ha responsabilità in qualità di loro tutore, a portare Matthew in un centro specializzato dove possono dargli le cure che necessita. Matthew credo abbia all’incirca tre anni e soffre dalla nascita di una sindrome che gli impedisce di controllare i muscoli. Cammina solo se sorretto e non riesce a parlare. Durante il tragitto di tre ore in macchina per raggiungere l’ospedale è felice, e guarda curioso fuori dal finestrino. Ad ogni dosso ride, e mi graffia le braccia dal tanto che cerca di stringerle per attirare la mia attenzione. Lo guardo mentre gioco e gli indico il paesaggio, e penso che con lui la vita è davvero stata ingiusta. È orfano (o abbandonato, la storia dei bambini non è dato saperla) e non sarà mai in grado di essere autosufficiente.

Raggiungiamo la nostra meta, una struttura immensa immersa in un parco meraviglioso. Portiamo Matthew dall’infermiera che lo prenderà in cura. Attorno a me ci sono persone affette da qualunque disfunzionalità motoria e mentale: spastici, con arti menomati, zoppi…e di tutte le età, da bambini ad anziani.

Ad un tratto una carrozzella un po’ arrugginita mi viene incontro, e un bimbo di poco più di sei anni mi guarda con sorriso bianco smagliante e mi dice “Ciao!”. Qui ogni volta che i bambini vedono una persona bianca la salutano così. Dietro, che la spinge, un ragazzo più o meno della mia età. “Ciao” mi dice anche lui in italiano “sei nuova?”. “No, sono ad Embu come volontaria in un orfanotrofio. Piacere, Giorgia”. “Ah, io sono Lorenzo, sono medico volontario qui… ti ho scambiata per una new entry del gruppo!”. Replica facendomi l’occhiolino.

Lo ammiro. Molto. Io non credo riuscirei a rimanere lì. Non sono sensibile al sangue o ai malati, ma non potrei sopportare la consapevolezza che queste persone vengono curate con strumenti che non sono nemmeno lontanamente considerabili come sufficienti. E tutto è così precario, e improvvisato. La vita e la morte qui è come se avessero un peso diverso.

Lasciamo Matthew con la valigia contenete tutte le sue cose tra cui: spazzolino, dentifricio, carta igienica ed il sapone per lavare i suoi vestiti. Tutto ha un prezzo e la povertà fa si che nulla si possa dare per scontato o gratuito persino i beni primari più semplici, perciò ogni paziente deve essere in grado di procurarsi i suoi per non gravare sull’economia dell’ospedale.

Mangiamo un mango sotto un albero ed io e S. Terezia torniamo ad Embu. Mentre lei mi racconta ricette di cucina locale, io tra me penso quanto sia difficile a volta e cruda la realtà che ci si presenta davanti agli occhi. Fatico a togliermi dalla mente ciò che ho visto.

 

19 Gennaio. Ore 19.30 e io sono con i bambini mentre cenano. Seduta come ogni sera su una sediolina di fianco ad Andrew con il mio braccio imprigionato nella sua mano per evitare che mi allontani. Di fronte a me le gemelle Magda e Frida, le uniche due grandi del gruppo. Hanno dieci anni e frequentano una scuola vicino all’orfanotrofio ma sono cresciute qui fin da quando erano neonate. Nella stanza c’è il solito allegro fracasso: qualcuno ride, qualcun altro che mangia giocando con il vicino e qualcuno ancora che litiga per un cucchiaio che per scherzo gli è stato rubato. Ordinaria normalità.

Ad un tratto S. Letizia entra dalla porta e mi fa segno che anche la nostra di cena è pronta e che aveva già suonato la campanella (il segnale per andare a tavola).

  1. Terezia non è ancora arrivata. Chiedo come mai e Sister Magdaline guardandomi, dice che era impegnata, che quella sera ne erano arrivati “due nuovi”.

Finisco di mangiare e vado a dare la buonanotte come sempre ai bambini.

Nella camerata delle femmine in fondo nell’ultimo lettino vicino alla finestra è sdraiata una bambina. È alta per avere cinque anni ed ha i capelli cortissimi, rasati ad un centimetro. È l’unica che non corre verso di me, non salta da un letto all’altro, o non cerca di prendermi l’orologio per sentire il ticchettio delle lancette. Mi avvicino lentamente e lei si gira. Ha gli occhi gonfi come due meloni, talmente tanto che fatica ad aprirli.

Si chiama Jean, è “quella nuova” e si trova qui perché pestata a sangue dalla famiglia. La sorellina piccola, arrivata con lei, è invece incolume, e gioca già con le altre bambine.

Jean è terrorizzata e si vergogna del suo aspetto. “Perché la provvidenza non ha impedito ciò?!” chiedo a Sister Letizia sarcastica. E mi avvio verso la porta per andare anche io a dormire, anche se alla fine non riesco a chiudere occhio tutta la notte.

Non riesco a smettere di pensare a Jean e alla bestia che l’ha ridotta così.

 

21 Gennaio 2018, domenica. Mi sveglio, mille messaggi sul mio telefono di amici dall’Italia che mi fanno gli auguri. Ho trent’anni: aiuto!

Mi alzo, doccia e mi metto jeans e maglietta puliti che avevo conservato per l’occasione. Faccio colazione ma le Sisters sono già in chiesa, a parte S. Rosemary che ci andrà più tardi. Ieri sera erano un po’ risentite con me dal fatto che andrò a vedere la cerimonia anglicana dove canteranno gospel al posto di unirmi a loro per la funzione cristiana cattolica.

La chiesa si trova a 10 minuti a piedi dall’orfanotrofio. Faccio il tragitto con Anne, quarant’anni anche se sembra mia coetanea: single e mamma di un bambino di otto anni (come il 65% delle donne keniote è stata abbandonata dal padre dopo la nascita del figlio) che mi racconta sorridente dei suoi piani per la giornata. Lei è una delle tate dei babies con cui ho fatto più amicizia.

Saluto Anne e varco la soglia della chiesa: ho tutti gli occhi puntati addosso. In primis perché sono l’unica bianca, poi perché probabilmente per loro sono vestita come una “stracciona” e peraltro in scarpe da tennis.

Un’altra delle contraddizioni africane: durante la settimana si possono indossare pantaloni bucati e magliette sdrucite ma la domenica bisogna rigorosamente avere il “vestito della festa” tutto tulle e nastrini (e che a me ricorda tanto una maschera da carnevale).

La cerimonia è gioiosa, allegra, tutti cantano e ballano ed i bambini sono quasi più numerosi degli adulti. La chiesa è gremita e la funzione sembra una festa invece che un rito religioso. Si percepisce il calore e la felicità delle persone.

Rientrata all’orfanotrofio vado con S. Letizia a comprare yogurt e palloncini per i bambini e torta e gelato per le Sisters. Alle quattro, dopo il pisolino, ci ritroviamo tutti in cortile. Le gemelle con l’aiuto di Terezia, la cuoca che da vent’anni cucina per tutti, mi hanno preparato una torta sorpresa. Soffio le candeline mentre mi cantano in coro “tanti auguri” in swahili e tutte le altre canzoni che si dedicano al festeggiato.

Ci sono tutti! Sono felicissimi di questo pomeriggio “speciale”. Corrono, gridano, mangiano torta e yogurt con gusto… ed infine si divertono a far esplodere tutti i balloons che noi “grandi” abbiamo gonfiato a fiato.

La sera durante la cena anche le Sisters mi fanno una sorpresa e mi portano una seconda torta decorata con candeline assieme con il loro regalo.

A fine serata stanca e felice mi incammino con il mio quadro appena ricevuto in dono, un portachiavi ed un soprammobile, verso la mia camera. Di sicuro è stato il compleanno più strano ed originale mai trascorso, ma anche senza dubbio quello più indimenticabile ed emozionante della mia vita.

 

25 Gennaio 2018. Ultimo giorno qui ad Embu. Terezia in cucina sta preparando i chapati per tutti. Sono una specie di piadina fatta solo di acqua, farina e olio di semi. Mi metto ad aiutarla dato che ne deve stendere e cuocere circa settanta entro l’ora di pranzo. È una donna solare, materna, e ti viene voglia di abbracciarla.

  1. Letizia ad un tratto mi chiama, e mi comunica che l’imbianchino ha finalmente il preventivo dei lavori pronto.

Qui chi viene come volontario, oltre a stare con i bambini e dare una mano nelle cose pratiche quotidiane, deve cercare di supervisionare per conto dell’associazione i progetti che vengono finanziati.

Nel mio caso sono in corso il rifacimento di due locali, e ho dovuto, non con poca fatica, rincorrere falegname, idraulico e imbianchino per cercare di farmi dare un preventivo prima della mia partenza.

Rispetto alle mie abitudini i tempi di lavoro locali sono pura follia. In Kenya l’orario concordato per un appuntamento non rispecchia mai quello reale, e se promettono la consegna di un progetto in una specifica data, difficilmente la rispettano. Ottenere pertanto il foglio con i costi necessari da sostenere, mi sembra un successo enorme. Ora mai dopo quindici giorni, sono quasi abituata ai ritmi africani, e al fatto che fretta e velocità non siano mai contemplate.

 

26 Gennaio 2018. Ore 6.50 del mattino. Le gemelle mi bussano alla finestra della camera. Con i capelli ancora bagnati fradici dalla doccia, esco in maglietta in maniche corte per salutarle l’ultima volta prima che vadano a scuola. Ci sono 24 gradi e loro indossano piumino e felpa. Mi stringono in un abbraccio e poi corrono via per non perdere lo scuolabus che le aspetta.

Alle otto Ken mi verrà a riprendere per portarmi a Nairobi dove trascorrerò l’ultimo giorno prima di rientrare in Italia.

Mi rimane solo un’ora da trascorrere in questo posto che per quindici giorni ho sentito come casa. Faccio l’ultima colazione con le Sisters e mi gusto l’ultimo mango (la vendita di questo frutto credo essere notevolmente incrementata con la mia giunta in Africa!). Le saluto, e poi vado con s. Letizia dai bambini.

Tutti seduti in sala pranzo. Mi guardano. Io in piedi davanti a loro spiego che sono in partenza per l’Italia e che tornerò presto a trovarli. S. Letizia traduce quello che dico in un perfetto swahili imparato in vent’anni anni che vive qui. Loro felici come sempre mi dedicano una canzone che è assieme un augurio ed una benedizione. Lincon mi guarda con il suo sorriso smagliante. Ken cerca di arrampicarsi al mio braccio per farsi prendere, ed Adrew nemmeno a dirlo, corre per la sala, noncurante della teacher che gli ordina di sedersi. Per loro è normale vedere uno di noi “Ciao” volontari partire. Sono stati abbandonati o hanno perso la famiglia, e vivono in una realtà dove c’è sempre qualcuno che arriva e qualcuno che se ne va.

Io, che in questo caso sto lasciando Embu, batto l’ultimo “cinque” a tutti: a Jean (che ha imparato ad allacciarsi le stringhe da pochi giorni), a Rose, a Lincon, a Ken ad Andrew (che scavalca tutti per farlo per primo), ad Emma e agli altri rimanenti tra cui alcuni di cui non ho ancora imparato il nome.

Con me porto un sacco di esperienze che mi rimarranno dentro per tutta la vita e so che allo stesso modo ho lasciato qualcosa di me a loro.

 

Chi decide di essere volontario dona soldi, tempo, affetto, abbracci, vestiti…ma non può pensare di poter risolvere i problemi dell’Africa.

Di certo però può contribuire a rendere migliore la condizione di vita di questi bambini in base alle sue possibilità.

 

Qui qualunque tipo di aiuto è necessario. Non esiste “troppo” o “troppo poco”. La povertà e la fame sono reali ed estreme.

“Non puoi comprare il gelato, perché se i bambini lo assaggiano poi capiscono che è buono e ne vorrebbero ancora e noi non possiamo permettercelo” è ciò che mi sono sentita dire dalle Sisters.

 

Tutto, anche il minimo può fare la differenza.

 

Grazie Embu Children’s Home. Grazie Maisha Marefu. Grazie Africa.

 

Giorgia

Paolo Bigi

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